La forza concentrata nell’opera di Van Gogh è tale che ogni suo dipinto, per quanto all’apparenza minore o trascurabile, può proporsi come un’ossessione: a chi lo veda per la prima volta e senta quindi il bisogno di rivederlo molte altre volte, a lungo, per portarlo poi dentro di sé come una visione pulsante che al pari di una stella (e gli astri nel cielo notturno sono tra gli emblemi del pittore olandese) non cesserà più di rilasciare la propria energia. Pure, c’è ora un particolare dipinto di Van Gogh – poco noto credo, da parte mia l’ho scoperto solo in questi giorni – che mi si è imposto con una speciale qualità ossessiva, come una sorta di rivelazione personale: come cioè se fosse indirizzato a me in particolare, cosa che è certo impossibile. Si tratta di un piccolo olio (circa 30 per 40 centimetri), che in pochi possono vedere dal vero, facendo parte di una collezione privata, dopo essere stato messo all’asta da Christie’s nel maggio 1987. Venne dipinto nell’ottobre del 1883, durante il breve soggiorno del pittore nella provincia olandese del Drenthe, e raffigura un Contadino che brucia sterpi (Peasant Burning Weeds).
Il primo tratto notevole di questa “icona” sta nella singolarità, anzi assoluta unicità del soggetto: tra i circa 870 dipinti realizzati da Van Gogh non vi sono, se non erro, altre immagini di un fuoco, un falò. Chiome d’alberi e campi di grano, petali di fiori e corpi umani, cieli e nuvole: tutto nella sua pittura si torce con l’impetuoso, incessante movimento delle fiamme, e un grande sole spesso arde e campeggia al loro centro o vi tramonta rosso e incandescente, ma il fuoco sulla terra, governato dagli uomini, non è stato mai altrimenti rappresentato da Van Gogh (a parte alcune fiamme di focolare presenti, come elementi però non centrali, in opere del 1889 tratte da Millet e Demont-Breton).
Il quasi monocromo Contadino che brucia sterpi – che, inserito in un contesto più ampio e corale, potrebbe anche essere un personaggio “da presepe” o da adorazione dei Magi, una figurina accennata come ce ne sono a migliaia sul minuzioso sfondo dei dipinti di tutta l’Europa cristiana – nella sua oscura e muta potenza evoca le grotte preistoriche con i loro fuochi notturni, e le pitture rupestri che gli uomini di quelle epoche vi realizzavano usando fuliggine, carbone e tizzoni di legna annerita… i colori sono quegli stessi, terrosi e primordiali: nero e ocra, bruno, e il rosso, che ha un quasi tangibile bagliore. Al contempo evoca una nebbiosa periferia urbana, una terra di nessuno a qualunque latitudine del pianeta.
Nell’edizione italiana delle lettere di Vincent al fratello Theo non ho potuto trovare riferimenti alla scena rappresentata, che pure deve aver catturato l’attenzione di Van Gogh ed essere in qualche modo rimasta sempre impressa in lui benché non ne abbia in seguito riproposto la singolare suggestione. Alcuni brani di una lettera scritta durante il soggiorno a Drenthe esprimono però perfettamente il senso del paesaggio che si intravede nel piccolo olio: «Una macchia nera di terra – piatta […] un’atmosfera brumosa […] La terra non fertile del Drenthe […] è ancora più nera […] Quando si cammina per ore ed ore per questa campagna, davvero si sente che non esiste altro che quella distesa infinita di terra […] Non ci si accorge di nulla, per quanto grande possa essere, si sa solo che c’è la terra e il cielo […] una larga strada, tutta nera di fango, con una brughiera immensa sulla destra e un’altra infinita brughiera a sinistra, poche casupole nere e triangolari costruite di pezzi di torba, dalla cui finestra riluce la luce rossa di un focherello».
Con la differenza che qui non vediamo un rassicurante fuoco nella casa in cui si raccolga un nucleo familiare (nelle opere citate del 1889 saranno una madre col bambino e una coppia contadina alla Fine della giornata), bensì un povero bagliore rossastro che non basta a illuminare il cielo dell’imbrunire e lo spazio desolato che si stende tutt’intorno, né a dare calore al corpo che vi si protende. Tra il fumo che rende più fosca l’aria e punge la gola, la silhouette anch’essa scura e terrosa dell’uomo senza volto si staglia solitaria, faticosamente curva nel tentativo di trarre conforto dal misero falò di sterpi. Infinitamente isolata e anonima. Se solo questa figura avesse un volto, qualche riconoscibile fattezza individuale, potremmo forse guardarla in faccia una volta per tutte e procedere oltre, dimenticandola magari, ma di lei non sappiamo nulla se non il suo curvarsi di fronte alla terra e alla notte, e continueremo sempre a vederla.
9-11 gennaio 2017
Gentile Giovanna, la tua lettura del “Contadino che brucia le sterpi” è suggestiva. La prima cosa che mi viene di dirti è che sei andata molto vicina all’anima e allo spirito di Van Gogh. Credo anche che la tua lettura dal punto di vista tecnico ed estetico sia corretta. Io in quel “contadino” ci vedo uno dei tanti profughi dell’inferno di oggi. D’altra parte non era Van Gogh un profugo? Solo le stelle gli furono amiche.
Antonio
[Forse solo Antonio Motta usa ancora appellativi come “gentile” e “le sterpi” al femminile…]
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