Attilio Bertolucci, La capanna indiana
III
Dov’è volato l’uccello che nell’ora
più calda ti è passato sopra
alto, e i pali, i tronchi giovani
di gaggìa che ti formano, capanna
deserta, si sono rigati di freddo
un attimo nella quiete del sole?
Andava a oriente, la pianura spoglia
gli fuggiva di sotto, questo luogo
del nostro cuore al tempo che più dolce
del vivere si sente, come un’acqua
sotto foglie cadute, il fluire
ininterrotto. Qui lasciava qualche
ora di giorno, affrettando a sé la fine
della luce, già presa la pupilla
in lontane città distese, fiumi
più ampi che da noi nell’imminente
oscurità dei ponti e delle torri. Qui
lasciava quel breve, quell’estremo
saluto che alla terra il cielo invia
al crepuscolo e i nostri occhi stanchi
di seguire un uccello che si perde
consola l’ombra lunga delle piante
sui prati, il guizzo tenero
più sù, più sù in un cornicione friabile
di villa assorta, del sole che muore.
[…]
I
[…]
Sulla terra indurita che conduce
al solitario ritrovo saltella
l’uccellino che chiamano del freddo
e non s’accorge delle altre presenze
sul sentiero, diretto forse a qualche
ultima bacca rosseggiante al suo
occhio acuto e tranquillo, di lontano.
[…]
Eppure è il tempo più dolce dell’anno
quando la siepe brulla che recinge
del suo braccio il deserto dominio
si fa intima stanza allo smarrito
passero già colore della terra.
[…]
E come dolcemente il giorno cresce
sulla pianura seminata ormai
pronta al riposo dell’inverno, eppure
oggi perduta dietro il sole ultimo
che matura sui tralci rari grani
abbandonati anche dagli storni.
[…]
Nessuno si ricorda, tanto cara
è l’ora trascorrente sulla terra
che un uccello lontano e silenzioso
segna della sua ombra fuggitiva,
nessuno si ricorda più di noi.
***
Franco Fortini, Questo muro
Il merlo
Uccello che dici “anima
risorgi”, gridi dalla selvetta
d’aceri e ghiande, merlo
d’amarezza, e dal vino
di viole o da cave
d’alabastro o deboli croci
dell’Aventino,
sì, dici, la mente sfinita
annegala e le rughe
nella fonte di giovinezza
che in mezzo al bosco sempre sta
dov’è il paradiso d’edere,
dove il risveglio è riso
e la tua nota non nuoce.
E dove ogni cosa è com’era
per virtù di siepi nitida
in specchi di solchi e nubi
al giovane di cera e veemenza
che nel vento ti udiva
di Pasqua lodare l’ora
e il convento nel blu spariva.
O ridicolo mite vacuo
detto anima mia, risorgere
è, lo sai, di chi nulla ricorda.
E invece che Irlanda di morti
narri mai, di che peregrine
erbe balbetti, di che limbo rivolo
gelidissimo sei.
*
Il falso vecchio
II
Quando si avvicinano i colombi i tacchini gridano.
Il muratore picchia sul muro col suo martello.
Le auto inferocite assaltano le vie e le piazze.
I rumori più piccoli si posano dentro i più grandi
poi attraverso i viventi vanno via.
V
La corruzione entra nel cemento?
Dìsfa il ferro portante?
Ecco la campanella
della chiusura, una madre furiosa
se stessa squassa e il suo frutto.
Chiedendo che ore sono
il cittadino si abbatte
col cuore rotto.
Ma non tutto è così!
Il merlo azzoppato
riprende a fischiare.
L’interferenza delle contrazioni
muove ancora il liquore
della pupilla. Si guardi
l’anatra palmata che vigorosa
separa acqua e ombra.
VI
L’anatra palmata la vedi come va
tutta oleata nel laghetto?
Il ragazzo
Norberto odora il ferro della ringhiera.
Somiglia a molte altre questa sera.
In cima agli alberi
dove fina fina la nebbia comincia
i suoni della città
si riuniscono e girano al largo:
Un merlo va che nel becco ha
uno stecco e un’erbolina.
Che cosa stiamo a fare qui.
*
Attilio BERTOLUCCI, La capanna indiana,
Sansoni, Firenze, 1951 e 1955
Franco FORTINI, Questo muro
“Lo Specchio”, Mondadori, Milano, 1973
*
Pubblicato in La poesia e lo spirito